Ero molto legato alla mia città. Conoscevo tutte le sue strade, i suoi vicoli, i suoi monumenti e persino i graffiti sui suoi muri. Ogni mio ricordo apparteneva a quella città, dalla quale non ero mai uscito. Neanche una volta.
Quella notte c’era una fitta nebbia, la luce era forte solo nel bar dove lavoravo come cameriere. Non vedevo nitidamente, ma sapevo dove stavo andando e che stavo percorrendo la strada giusta.
Era una buona idea? Forse, dipende dai punti di vista. Siamo troppo legati al passato per dimenticarlo e troppo orgogliosi per tornare indietro. Nulla è totalmente giusto o completamente sbagliato, quelli sono gli asintoti delle nostre scelte. Ma avevo riflettuto a lungo prima di prendere quella decisione, e pensavo che fosse la migliore.
Andava quasi tutto bene: avevo un lavoro che mi piaceva, un gruppo di amici amanti della musica, il rendimento scolastico era più che sufficiente. Ma mancava qualcosa, o meglio, qualcuno.
L’avevo rivista proprio quella sera, mentre lavoravo. Ero molto legato a lei, più di quanto lo fossi con la mia città. Era speciale, riusciva sempre a mettermi di buon umore. Quando la incontrai per la prima volta non aveva amici, così le proposi di far parte del mio gruppo. Accettò subito.
Mi fermai. Era quella la strada giusta? Si, non poteva che essere quella. Mi guardai intorno: ero solo. Come quando la incontrai. Che sia stata proprio la solitudine a spingerla ad aggregarsi al mio gruppo? L’uomo non basta a sé stesso, disse Aristotele molto tempo fa.
In ogni caso, diventammo amici. Lei mi supportava nelle mie innumerevoli attività, e io divenni presto un riferimento per lei. Mi raccontava i suoi segreti, i suoi sogni, le sue più grandi aspirazioni. Mi parlava anche di un suo amico che avrebbe voluto farmi conoscere, ma non lo incontrai neanche una volta. Il nostro rapporto, insomma, era diventato sempre più stretto, più intimo.
Finché non superò l’amicizia. O meglio, finché non volli essere più di un amico. Ormai ci conoscevamo da molti mesi, ci vedevamo ogni giorno sia con il gruppo che da soli. Mi piaceva, ma non per la sua bellezza esteriore: quella sarebbe purtroppo svanita con il tempo. Alla scatola preferii il contenuto, splendente di una bellezza diversa, unica.
Ero certo che quella fosse la strada giusta. Eppure quella casa mi sembrava troppo lontana, il tempo si stava dilatando all’infinito. Affrettai il passo. Dovevo arrivare il prima possibile.
E poi, quel ragazzo. Lo accolsi in quel bar nel migliore dei modi, ma lui non ricambiò la cortesia. Vedevo nei suoi occhi un ego smisurato, tracotante e possessivo, incapace di accontentarsi. Lo stesso sguardo di chi non riconosce nel prossimo un suo simile. Lo sguardo di chi è pronto a tutto pur di rubare agli altri ciò che non gli appartiene. Lui rubò la mia vita.
Certo, quello era il pensiero di un adolescente, è naturale che fosse così drastico. Prima era tutto perfetto e il giorno dopo mancava qualcosa, senza aver fatto nulla di male. In qualche modo quel ragazzo capì che provavo qualcosa per quella giovane, e decise di tenerla solo per sé.
Quella strada. Quella maledetta strada. La nebbia non nascondeva la grande insegna del cinema, luogo dove quella ragazza volle parlarmi. Dovevo continuare a camminare. Serrai i pugni e continuai.
Non potevamo più vederci: così, all’improvviso, mi parlò. Il suo volto era cambiato, la sua voce era diventata severa. Era un addio. Le chiesi il perché. Non rispose subito, prima volle inviare un messaggio al suo amato. Le chiesi nuovamente il motivo di quell’addio, se avevo fatto qualcosa di sbagliato, se potessi porvi rimedio. No, mi rispose, non avevo fatto nulla di male. Ma non tollerava i sentimenti che provavo per lei, nonostante io glieli abbia sempre nascosti. Le dissi che non sapevo di cosa stesse parlando, ma lei rispose che aveva preso la sua decisione. Era finita.
Ma non le bastò. E non dirò ciò che lei attribuì a me e al mio gruppo: non avrebbe lo stesso effetto. Io ci rimasi molto male, ma il gruppo la prese ancora peggio, e cercò di capire come fece quella ragazza a conoscere i miei sentimenti. Forse i miei comportamenti stavano diventando troppo espliciti, pensai. Forse l’aveva capito da come le sorridevo, da come le parlavo, da una serie innumerevoli di variabili in cui, inconsciamente, avrei potuto mostrare il mio interesse amoroso verso di lei.
Niente di tutto questo. Il suo amato la obbligò a separarsi da me e dal gruppo, così la ragazza inventò una scusa.
Eppure, pensai, non lo meritavo. Non avevo colpe, ma avevo perso la mia vita. Infatti il gruppo si sciolse la settimana successiva, incapace di restare unito dopo quell’avvenimento. Quella ragazza era diventata il fulcro del mio mondo, e senza di lei quel mondo era crollato. Ma riuscii a ricominciare, a formare un nuovo gruppo e a vivere una nuova vita.
Però non aveva più lo stesso sapore. Non riuscivo più a fidarmi del prossimo, convinto che ogni mia debolezza sarebbe stata usata contro di me. In fondo, ciò accade spesso a quell’età. Purtroppo.
Ero arrivato. Finalmente. Suonai una volta. Ero impaziente, dovevo assolutamente parlare con quella ragazza. Non rispose. Suonai più forte, magari non aveva sentito. Ancora niente. Ma non potevo arrendermi, così suonai ancora.
Forse non sarebbe tornata ad essere la mia migliore amica, forse non avrebbe accettato i miei sentimenti, forse non sarebbe tornata da me. Ma dovevo provarci.
La porta si aprii. Entrai lentamente.
Dimenticavo le presentazioni. Ma ormai non hanno più importanza: non sentirete più parlare di me. Addio.

Valerio Giunta

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