Il bar del Liceo è il luogo di ritrovo per molti studenti del Majorana. Lo è stato anche per me e Anna Francesca Vallone, ex studentessa del Majo e scrittrice del romanzo Non lo saprà nessuno.
Ci siamo seduti e, dopo essere stato intervistato, ho appoggiato la mia copia del romanzo sul tavolo e ho iniziato a registrare.
Ero curioso di conoscerla, capirla. Nonostante il chiasso proveniente dal tavolo vicino al nostro, sentivo solo una voce. La sua.
“Non si preoccupi per la registrazione, si senta libera di dire quello che vuole.” ho detto.
“Dammi del tu, per favore.” mi ha risposto, “Sennò mi sento vecchia!”
“Va bene” ho detto scusandomi, “Prima domanda, da dove è venuta l’ispirazione per scrivere il tuo romanzo, Non lo saprà nessuno?”
“Allora.” ha preso fiato, “Come dico sempre, mi sono ispirata alla storia che ho vissuto. Questo romanzo non è un’autobiografia, però è ispirato ad una storia vera, la mia. Tutte le emozioni riportate, come i fatti, sono realmente accaduti. Poi, che siano accaduti con qualche particolare diverso poco importa. Diciamo che la ciccia mi è successa veramente.”
Ho guardato la copertina del romanzo. Quel libro parlava di lei, della sua vita, del suo passato. Sfogliando le sue pagine avevo conosciuto una persona.
“Ho deciso di scriverlo perché avevo appena finito di frequentare la scuola Holden e cercavo la storia per un romanzo. Dopo che hai imparato a scrivere romanzi devi scriverne uno.” ha detto sorridendo, “Ho deciso di scriverlo perché era un momento in cui avevo preso consapevolezza di questa storia, a differenza di un po’ di tempo prima, perché ci ho messo anni per realizzare ciò che era successo tra me e questa persona, ma poi ce l’ho fatta e ho pensato che fosse il momento di buttarla giù per vedere se effettivamente usciva una storia con un senso.
Questo mi ha aiutata molto, è stato terapeutico e anche un lancio nel buio: da una parte ero convinta che una storia del genere non fosse mai capitata a nessuno in quanto non mi sentivo molto capita quando la raccontavo alle altre persone, dall’altra mi dicevo ‘Ci deve essere qualcuno che ha vissuto una storia simile’. Quindi ho deciso di scrivere e pubblicare questo romanzo soprattutto per sentirmi meno sola e far sentire meno soli coloro che l’hanno vissuta. Quindi poteva essere potenzialmente un fiasco allucinante oppure avere un certo successo che, grazie al cielo, ha avuto.
In questo modo ho potuto rapportarmi con un sacco di ragazze che mi hanno scritto che si ritrovavano in questa storia. La cosa che mi ha sconvolta è che mi hanno scritto anche tanti ragazzi. Quello che ritenevo un romanzo femminile in realtà si è rivelato, come tematiche, un libro universale.”
Anna ha ripreso fiato un attimo. Ero d’accordo, il suo libro aveva temi che riguardavano una gran parte di adolescenti, ed io ero tra questi.
“Mi ha stupita il fatto che ci si fossero ritrovati dei ragazzi, magari non si erano ritrovati dal punto di vista sessuale, però le emozioni raccoglievano un po’ tutti quelli che avevano la mia età. Questo mi ha colpita, vuol dire che la mia è una storia abbastanza universale, cosa che hanno scritto in alcune recensioni e che io non mi aspettavo. Ad esempio, il Fatto Quotidiano aveva scritto che ‘mette in luce problematiche generazionali comuni, ma che spesso gravitano nelle zone d’ombra della crescita individuale’. Era ciò che più mi interessava, e l’ispirazione deriva da una storia, purtroppo, personale.” ha detto, concludendo con un sorriso.
“Hai già risposto alla seconda domanda che mi ero scritto.” ho ammesso con un piccolo riso, “Allora passiamo a quella che doveva essere la terza. Ho trovato molto interessante questa scelta letteraria: la storia è stata scritta al passato prossimo. Perché?”
“Fai una domanda…” ha detto, cercando le parole per concludere la frase.
“Forse è un po’ scontata.” ho ammesso interrompendola.
“No, anzi. Volevo dire il contrario.” ha risposto, “Mi fai una domanda di chi si intende di letteratura. Verrebbe in mente a chi l’ha studiata, o che comunque legge e scrive.”
È rimasta qualche secondo a pensare, poi ha risposto: “La scelta dei tempi verbali dipende, banalmente, dalla scorrevolezza della lettura. Ma dipende anche da altri fattori. All’inizio, questo libro inizialmente era scritto al passato remoto. Scorreva bene, non aveva problemi, però mi sono resa conto che il passato prossimo lo avvicinava di più, sia a me come epoca e sentimenti, sia agli altri.
Il passato prossimo è un passato più vicino. Sono dell’idea che il passato ci perseguiti tutta la vita, non lo dimentichi mai del tutto. Quindi mi dava l’impressione di essere un libro un po’ più ‘presente’ in questo modo. Ad esempio, con questa persona ho ancora dei rapporti.”, poi ha commentato “Chiamiamoli rapporti…”
Ho dato uno sguardo alle pagine del libro. I suoi ricordi erano ancora vivi, presenti. Non sarebbe mai stata libera dal suo passato, come tutti noi.
“Quindi non mi sono sentita di raccontare una storia al passato remoto. Il passato prossimo ti da quell’idea di ‘è successo, qualcosa può ancora succedere, non siamo nell’Ottocento’.” ha concluso, “Non so, mi sono spiegata?”
“Sì.” ho risposto, “Avevo avuto quell’impressione, quando avevo letto il romanzo.”
“Avevo fatto più prove con i tempi verbali.” ha aggiunto.
“Ho letto spesso testi al passato remoto, presente, raramente futuro, ma mai passato prossimo.” ho spiegato, “Per questo ho trovato questa scelta così curiosa.”
Ho preso rapidamente il cellulare e ho letto la terza domanda. “Sei stata una studentessa di questa scuola.”
“Per disgrazia, si.”
Abbiamo riso entrambi. “Iniziamo bene.” ho commentato, presagendo una risposta interessante seppur negativa.
“Cosa ti è rimasto del Majo?”
“Eh!” ha esclamato appoggiando i gomiti sul tavolo, “Del Majorana mi sono rimaste tante cose brutte e pochissime belle. Mi è rimasto il bullismo che mi veniva fatto quotidianamente e l’indifferenza dei professori riguardo questo fatto. Mi è rimasta la telefonata che ha fatto mia madre al preside quando ho fatto a botte con uno che non sopportavo più, in particolar modo il fatto che il preside le aveva chiuso il telefono in faccia.”
Ho sgranato gli occhi. Non per sorpresa, piuttosto per empatia.
“Mi è rimasta una professoressa di matematica che, in corridoio, siccome facevo schifo nella sua materia e mio fratello invece era bravissimo, mi disse che ‘un figlio era uscito bene e l’altra male’. Cos’altro mi resta?” ha continuato, “Alla tua età, più o meno, pubblicai un altro libro che ora non si trova più.”
“L’ho saputo.” ho annuito, “Peccato, mi sarebbe piaciuto leggerlo.”
“Preferisco che non si legga perché è un libro che ho scritto prima di saper veramente scrivere, era più uno sfogo adolescenziale.” ha detto con una lieve risata, “Un libro che, non mi vergogno a dirlo siccome ero piccola, pubblicai a pagamento, cosa che non bisognerebbe mai fare. Le case editrici non devono farti pagare per la pubblicazione, però ce ne sono alcune piccole che preferisco chiamare tipografie piuttosto che case editrici, le quali ti pubblicano quello che vuoi. Le case editrici vere e proprie sono quelle che ci mettono diecimila anni a leggere il tuo manoscritto, risponderti ma ti pagano e distribuiscono il libro alla Feltrinelli, tanto per intenderci. Ma ero piccola e ho fatto questo esperimento.
Mi resta del Majorana che questo libro, nonostante io non avessi scritto niente di male sulla scuola, venne etichettato come un libro allucinante. Lo trovai in vicepresidenza con diecimila post-it attaccati che sottolineavano tutte le frasi che, secondo loro, non andavano bene. Dopo aver pubblicato questo libro i professori mi hanno odiata senza che io capissi il perché.
Mi rimane che alla maturità ho fatto gli scritti e, quando li ho consegnati, una professoressa mi disse ‘dovresti vergognarti’, dandomi del tu e senza farmi capire di cosa avrei dovuto vergognarmi.”
È rimasta per un attimo in silenzio. Non comprendevo quell’astio verso di lei, ma la capivo. Molte persone sono state nella sua stessa situazione.
“Mi resta il preside che si ostinava a volermi bocciare perché non sapevo la matematica, cosa che trovo assolutamente stupida. Avevo sempre il debito in matematica, solo in matematica. Lui voleva bocciarmi per questo, come se la bocciatura mi avesse potuto insegnare la matematica.”
“Ci sarà stato anche qualcosa di positivo, no?” ho chiesto, spingendola a parlarne, “O perlomeno, meno negativo…”
“A quello ci arriviamo dopo.” ha risposto risoluta, “Altro che mi resta: zero ascolto, zero interesse. Del Majorana mi resta anche una cosa molto recente su questo libro, cioè che nessuno ha voluto farlo leggere ai suoi alunni tranne la Leoni perché lo ritengono incredibilmente ‘spinto’, come se alla vostra età non dovreste leggere cose di questo genere.”
“Dopotutto, vediamo ben di peggio.” ho commentato.
“Appunto.” ha detto, “E il vecchiume, francamente. L’ignoranza che si porta dietro. Le professoresse che non sanno fare le professoresse, vanno in giro a dire che sono una pazza squilibrata. Le quali mi hanno conosciuta, tra l’altro, e mi hanno avuta in classe. Però vanno in giro dicendo questo. Ma io dico un grande, sonoro ‘chissenefrega!’.
Le cose positive che, invece, mi sono rimaste sono la professoressa Leoni, che ha sempre creduto in me. Io credo che alla vostra età sia importante avere anche solo una persona che sia in grado di credere in te, quando tutto il resto del mondo non lo fa. E lei ha avuto questo ruolo molto importante, perché ti aiuta a fare quello che da sola non riusciresti ad iniziare. La ringrazierò sempre, la porto sempre nel mio cuore.
Ho avuto delle amicizie che sono finite senza saperne il perché.”
“Non è molto positivo.” ho osservato.
“Appunto.” ha risposto, “Diciamo che mi restano i bei ricordi di queste amicizie. Nient’altro.”
“Ok.”
“Gianni e Daniela!” ha detto improvvisamente voltandosi, “Loro sono il meglio, un lato positivo. Mi hanno accolta nei miei momenti di sconforto, mi hanno fatto da doppia famiglia. Però è brutto che a scuola tu possa dire che di positivo c’è solo una professoressa e due baristi.”
L’ultima domanda. “Tu chi sei oggi?” ho chiesto.
“Oggi sono una persona che, grazie a pochissimi altri, tra cui Leoni, il mio fidanzato e mia madre, è riuscita a fare quello che voleva. Ho frequentato una scuola di scrittura e ho fatto una pubblicazione. Ho un lavoro che mi piace, ovvero scrivo, lavoro come editor e pubblico su alcuni giornali. Faccio corsi di scrittura, studio all’università; insomma, faccio una marea di cose che mi piacciono.
Ho sviluppato molta umiltà nel corso degli anni e ho capito determinate persone. Questo mi permette di non odiarle, di non essere arrabbiata con loro, nonostante magari alcuni di loro non siano così con me.
Ho capito molte cose riguardo l’essere umano. Quello che ho capito di più è che ci vuole coraggio per fare qualsiasi cosa.” ha risposto, “Penso che sia tutto.”
Finita l’intervista, è suonata la campanella dell’intervallo. Ci siamo alzati in piedi e l’ho ringraziata.
Anna Francesca Vallone, una persona splendida seppure in passato dipinta diversamente, mi ha scritto una dedica sulla mia copia di Non lo saprà nessuno. Sorrido ogni volta che la leggo.
Valerio Giunta