Quello fu il mio primo Natale passato senza la mia famiglia.
“Ciao Settimo, come va? Senti, ti andrebbe di passare il Natale con me? Se non è un problema, naturalmente.” recitava un messaggio di Elisa inviato il 24 dicembre.
Mi accorsi dell’assenza dei miei genitori e di mio fratello. Avevo passato quasi tre mesi senza vederli, eppure ricordavo qualcosa di loro: mio padre lavorava in banca, mia madre in un supermercato e mio fratello andava all’università. Non avevo altro che ricordi vaporosi di persone che, ne ero certo, mi volevano bene.
“Certo.” risposi al messaggio, “Ma non vorrei essere di disturbo per la tua famiglia.”
“Tranquillo.” mi scrisse, “Ci sono solo io. Mia madre lavora, andiamo a mangiare nel ristorante dove lavora.”
Era una proposta insolita, pensai, quella di passare il giorno di Natale con un amico. Eppure, rammentai, un giorno chiesi a mio padre di festeggiare con i miei amici quel giorno speciale. Egli non me lo permise, dicendomi che avrei avuto il suo consenso solo se la mia media a scuola fosse stata pari o superiore a 9 in tutte le materie. Facevo terza media.
Dunque giustificai il desiderio di Elisa come una volontà repressa, come la mia, di trascorrere il proprio tempo a proprio piacimento. Eppure, pensai, questo ragionamento era collegato ad un mio lontano ricordo, troppo buio per essere ricordato. L’amnesia mi turbava, sentivo che il vecchio Settimo voleva impadronirsi del suo corpo, ma faticava ad evadere dalla sua prigione.
Così accettai la proposta di Elisa. Mangiammo da mezzogiorno fino alle tre del pomeriggio. “Mia madre è meridionale.” mi disse Elisa, “In teoria il pranzo continuerebbe ancora per un paio d’ore.”
“Ci sono davvero tutte queste differenze tra chi abita al nord e chi vive al sud?” chiesi.
“Non ci sono molte differenze ormai.” disse, “Soprattutto in questa città. In fondo, anche se veniamo da luoghi diversi, anche se abbiamo usanze e culture differenti, siamo sempre persone.”
Annuii. “Devo dire che tua madre è un’ottima cuoca.”
“Durante le vacanze mi guiderà lei dentro il ristorante.” spiegò, “Devo togliermi le ore di alternanza scuola-lavoro, così ho chiesto di passare una settimana qui, in cucina.”
“Io lavorerò per dieci giorni nel bar dove leggiamo i libri.” dissi, “Otto ore al giorno.”
“Perfetto, così quando finisci di lavorare possiamo leggere qualcosa insieme.” disse sorridendo.
“E i compiti quando pensi di farli?” dissi con tono scherzoso.
“Faremo anche quelli.” sospirò, “Mi hanno dato un sacco di esercizi.”
Pensai a quanto fosse strano il sistema per assegnare i compiti delle vacanze. Alcuni professori, come quello di matematica, davano un numero fisso di esercizi a tutti gli studenti, mentre altri, come la professoressa di italiano, assegnavano gli esercizi in base ai voti presi durante il primo periodo. Perché questa differenza? Il secondo criterio di assegnazione dei compiti era molto più logico e sensato del primo, tuttavia pochi professori lo approvavano.
“Lasciamo perdere la scuola, almeno oggi.” sorrise Elisa, “Hai recuperato la memoria?”
“Non del tutto.” dissi con aria seria, “Molti ricordi mi sono ancora inaccessibili.”
“Ti ricordi della tua famiglia?” chiese.
“Molto poco.” ammisi.
“Me ne parlavi raramente.” disse, “Solo quando c’erano litigi seri.”
“Non andavo d’accordo con i miei parenti?” chiesi.
“No.” disse socchiudendo gli occhi, “Spero che questo non ti faccia stare male.”
“Non ti preoccupare.” dissi, “Preferisco un’amara verità ad una dolce bugia.”
“Eppure… Non importa, ero in sovrappensiero.” disse scuotendo il capo, “Quando litigavi con i tuoi genitori o con tuo fratello smettevi di parlare. Impiegavo ore a smuoverti, e non sempre ci riuscivo.”
“Ero fatto così?” mi chiesi. Non riuscivo ad immaginarmi in quel modo.
“I tuoi amici sono sempre stati la tua seconda famiglia.” continuò Elisa, “Non ne avevi tanti, ma preferivi la qualità alla quantità. Come me.”
“E dove sono ora i miei amici?” chiesi.
“Non lo so.” disse abbassando lo sguardo.
“Non fa niente.” dissi scuotendo il capo, “Grazie.”
“Settimo.” mi disse con esitazione.
“Dimmi.”
“C’è una cosa che ti devo dire.”
Un déjà vu. Non sentii più il mio cuore battere, non sentii più le voci delle altre persone in quella sala. Il ricordo finiva troppo presto.
“Ti ascolto.” dissi.
“Ecco.” balbettò timidamente, “Ci conosciamo da tanto tempo, Settimo. Tu hai perso la memoria, certo, ma…”
“Coraggio.”
Elisa mi guardò negli occhi. “Mi piaci, Settimo.” disse.
In quel momento non ebbi alcuna esitazione. Guardai i suoi occhi azzurri, i capelli neri, i suoi vestiti larghi nonostante fosse magra. In quel momento ricordai una strana emozione. Una gioia lontana, legata ad un periodo passato di cui non avevo memoria. Ma la sentivo, era viva in me, in quel momento. Così risposi senza batter ciglio, senza pensare a niente. I sentimenti di due adolescenti non hanno ragione.
“Anche io.”
Vidi comparire sul suo volto paura, stupore e infine ciò per cui l’uomo desidera esistere. Gioia. Faticava a contenerla, ma rimase immobile. Non disse nulla: i suoi occhi parlavano per lei.
Furono due settimane faticose e piacevoli. Ogni mattina vedevo i clienti abituali del bar, spesso scrittori e lettori che sparivano una volta passato mezzogiorno.
“Gli scrittori hanno la loro routine.” mi spiegò la cameriera con la quale lavoravo, “Vengono di mattina a fare colazione e discutere di attualità, di pomeriggio scrivono e di sera si riposano.”
“Sono tanti.” osservai.
“I loro lettori sono ancora più numerosi.” disse la cameriera sorridendo, “Spesso vengono in gruppo per chiacchierare con il loro scrittore preferito, o per avere una dedica sull’ultimo romanzo da lui pubblicato. Sono giorni speciali, sia per gli scrittori che per noi.”
Una scrittrice mi incuriosiva più delle altre. Era sempre vestita di rosa e indossava un bizzarro copricapo giallo. Ordinava ogni giorno una brioche e un cappuccino, chiacchierava per qualche minuto con la cameriera e infine scriveva tre versi su un foglio che lasciava sul bancone. Erano piccole poesie, commenti e critiche. I clienti abituali la conoscevano bene ma non le rivolgevano mai la parola.
“È un’eccentrica.” mi confidò uno scrittore, “Ama mettersi in mostra con i suoi abiti rosa e il suo cappello. Il successo le ha dato la testa, te lo dico io.”
“È diventata così dopo aver pubblicato un romanzo?” chiesi distrattamente.
“Esattamente.” rispose, “Si sente una regina perché ha venduto molte copie del suo libro. Ragazzo, tu sei giovane e devi crescere con i giusti modelli. Ascoltami.”
“Mi dica.” dissi pulendo una tazza.
“L’ostentazione è un male, non perseguirla. L’immagine non è così importante come la società vuole far credere. È un falso modello.” disse, “Un libro può essere eccezionale anche se la sua copertina è semplice.”
“Le do ragione, anche se probabilmente non riusciremo mai a conoscere l’essere.” disse una scrittrice, “La nostra contemporaneità ha fame di contenuti e spera di trovarli in ciò che appare bello, spesso cadendo nel vuoto. Bisogna saper vedere oltre la materia, oltre le pagine, oltre le parole.”
“Sei così giovane, Rebecca, eppure parli del vero come se fosse sempre stato parte di te.” disse lo scrittore sorridendo.
“Il vero è contenuto in ognuno di noi.” dissi, “Parte di esso è presente sin dalla nascita, e ci rende umani. Il resto è mutazione, clinamen della vita.”
“Interessante.” commentò lo scrittore, “Unire la filosofia scolastica con il nostro modo di vedere il mondo. Non ci avevo ancora pensato.”
“Converrai, però, che è il racconto il nostro tramite con i lettori di oggi.” disse Rebecca.
“Certo, non posso negarlo.” annuì, “Ma le affermazioni del ragazzo sono profonde, degne di essere prese in considerazione.”
“Non ho detto niente di che.” dissi pulendo il bancone, “Le vostre penne sono di certo più lucenti della mia.”
“Eppure è nata in me una nuova curiosità.” disse lo scrittore congedandosi, “Tornerò domani. Ora devo scrivere.”
In quei giorni feci parecchie conoscenze e imparai molto dalle persone che frequentavano quel bar. Tutti i pomeriggi Elisa veniva a trovarmi e passavamo molto tempo insieme a leggere, studiare e chiacchierare. Erano dei giorni felici.
Eppure ero turbato. Ogni giorno passava davanti al locale una ragazza e, una volta girata verso di me, baciava il ragazzo che camminava con lei. Quest’ultimo cambiava ogni due o tre giorni. Non capii da dove provenisse quel fastidio, ma c’era. Era ancora vivo.