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“Tutto bene?”
“Sì, non ti preoccupare.” rispose.
“Voglio aiutarti.” dissi.
I miei compagni di classe si erano precipitati al bar una volta suonata la campanella dell’intervallo. Camilla, invece, rimase seduta con la testa fra le mani. Ero seduto di fianco a lei.
“Aiutarmi?” chiese, “Non ho bisogno di aiuto.”
“Camilla, ti vedo piangere in bagno ogni giorno da una settimana.” dissi, “Cosa ti rende triste?”
“Niente di che.” rispose socchiudendo gli occhi, “Non vuoi fare una camminata per i corridoi? So che ti piace tanto.”
“Avanti, puoi fidarti di me.” le dissi guardandola negli occhi. Camilla posò lo sguardo sul banco.
“Non ho voglia di parlarne.”
“Sicura?” chiesi.
“Sì.”
“Va bene.” dissi andando verso la porta, “Se avrai bisogno di me chiamami e verrò da te.”
Stavo per varcare la porta quando mi chiamò. “Settimo, resta con me.”
Mi sedetti nuovamente vicino a lei. “Dimmi.”
“Non parlarne a nessuno, ok?” balbettò.
“Te lo prometto.” annuii.
“Ok.” disse sottovoce, “Da qualche tempo i miei genitori litigano. Mio papà accusa mia mamma di tradirlo.”
Appoggiai la mia mano sulla sua spalla. “E ti fa soffrire, immagino.”
“Soprattutto perché mio padre ha ragione.” disse avvicinandosi a me, “Lui la picchia e lei piange. Poi, quando lui esce di casa, lei chiama il suo ex. Una volta ero in casa quando si erano incontrati. Non mi ero mai vergognata così tanto in vita mia.”
“Mi dispiace, Camilla.”
“A scuola solo due persone si sono interessate a me.” singhiozzò con voce soffocata, “Tu e la prof di inglese.”
“Puoi fidarti di entrambi.” dissi con un piccolo sorriso.
“Per te è facile dirlo. Non sai come mi sento ogni volta che ci penso, figurati a parlarne.”
“Però ora stai meglio, vero?” chiesi.
Camilla rimase in silenzio per qualche secondo. “Sì, sto meglio.”
“Non devi tenere per te ciò che ti fa male, ma dovresti parlarne con le persone di cui ti fidi. Altrimenti rischi di annegare in te stessa.”
“Tu pensi che io sia una brava persona?” mi chiese.
Quella domanda mi suonò familiare. Avevo chiesto la stessa cosa ad una persona in un’altra circostanza, ma i ricordi non erano affatto nitidi.
“Sì.” risposi, “Lavori tanto per te e per gli altri. Hai sconfitto la tua pigrizia da quando hai iniziato le attività di alternanza scuola-lavoro in palestra, e aiuti i tuoi compagni ad imparare meglio le lezioni. Sei una brava ragazza.”
“Sei davvero cambiato da quando hai perso la memoria.” disse timidamente, “Grazie per quello che fai per me.”
“Puoi sempre contare su di me.” dissi uscendo dalla classe.
Camilla mi sorrise, poi uscì anche lei dall’aula.

I lunghi baci dei fidanzatini nei corridoi mi davano fastidio. Quando Elisa stava sola con me ci sentivamo liberi di fare quello che volevamo, ma bastava la presenza di una persona a frenarci e avere un atteggiamento diverso. Non volevamo isolarci dal mondo, anche se ogni tanto lo trovavamo necessario. Ci comportavamo in un modo o in un altro in base alla situazione e al contesto. I miei coetanei la pensavano diversamente.
Ero davanti all’Orologeria 2.0 quando vidi due persone dietro lo stand. Mi avvicinai con fare discreto.
“Abbiamo avuto un aumento delle vendite del 25%.” disse un ragazzo magro e basso leggendo un foglio, “Ma non abbiamo guadagnato tutti quei soldi. Dovete darci più tempo, abbiamo aperto da pochissimo.”
Davanti a lui vi era un ragazzo corpulento con delle scarpe nere rovinate, un paio di jeans strappati e una felpa nera con un teschio disegnato sul cappuccio. Aveva uno scaldacollo che gli copriva metà volto e degli strani anelli.
“Porca miseria.” disse, “Non abbiamo molto tempo. Dammi i soldi.”
“Non li ho.” balbettò il ragazzo, “Torna tra un mese e li avremo.”
“Un mese?” disse innervosito.
“Una settimana.” si corresse, “Una settimana basterà.”
Il ragazzo con la felpa nera avvicinò l’orologio alla bocca. “Che faccio, sire?”
“Fagli capire chi comanda qui.” disse una voce proveniente dall’orologio.
“D’accordo.” disse, “T’è andata bene, ma sai cosa succede a chi non fa il proprio lavoro? Eh, lo sai?”
“Avrete i soldi, ve lo prometto.” disse il ragazzo tremando.
“Ti ho fatto un’altra domanda, porca miseria!” ringhiò, poi usò gli anelli per graffiare il retro dello stand. I segni erano identici a quelli sul vetro del bagno.
Il ragazzo basso e magro fece un piccolo inchino e se ne andò con passo svelto.
“Non siamo qui per giocare.” disse una voce a me familiare.
“Ci mancavi solo tu, miseria.” sbuffò il ragazzo con la felpa nera nascondendo il viso dentro il cappuccio, “Che vuoi?”
“Lo sai bene.” rispose Pi apparendo di fianco a lui, “Devi smetterla di intrometterti negli affari dell’URSS.”
“Altrimenti?” disse con tono provocatorio, “Ho gli Artigli dalla mia parte.”
Pi si fermò davanti a lui. “Lascia l’USA e unisciti alla mia causa.”
Il ragazzo tentò di colpire il volto di Pi, ma egli parò il colpo. Il ragazzo strinse i denti.
“Impulsivo e rabbioso.” sorrise Pi, “Così ti piace vestirti?”
“L’immagine è tutto, a chi gliene importa del contenuto?” disse il ragazzo tirando un calcio a Pi.
“A gente come me, quelli dell’URSS.” disse schivando il piede del giovane con la felpa nera, “Siamo tanti, dovresti saperlo.”
“Io ho il consenso.” ringhiò il ragazzo sbattendo i piedi per terra, “Basta, me ne vado.”
“Scappa pure.” rispose Pi ridendo, “Ma non puoi liberarti di me.”
“Ringrazia che Davide ti vuole ancora vivo, Pi.” sbuffò il ragazzo sparendo.
Mi avvicinai lentamente a Pi. Egli si voltò verso di me con gli occhi chiusi.
“Immagino che tu voglia delle spiegazioni, Marzio.” disse.
“Mi chiamo Settimo.” lo corressi.
“Ci sei anche tu?” disse Pi senza scomporsi, “Non ne sono sorpreso.”
Marzio avanzò verso Pi. Era dall’altra parte dello stand. “Chi era quello?”
“Il suo nome è codename_SKULL.dat, i molti con rispetto e timore lo chiamano Lui. Io lo chiamo per cognome.” spiegò Pi, “Teschio. Quando arrivò in questa scuola nessuno voleva chiamarlo con il suo vero nome, Mattia, perché Teschio era, a parer comune, più esilarante. Ora il suo nome è sinonimo di paura.”
“In effetti, gli studenti della nostra scuola non sono celebri per il loro acume.” osservò Marzio.
“Teschio è ostile verso chiunque.” proseguì Pi, “Solo Davide riesce a gestire la sua rabbia. O almeno, così pare.”
“In che senso?” chiesi.
Pi sorrise per un istante, poi disse: “Davide e Teschio hanno obiettivi divergenti. Prima o poi saranno in conflitto tra loro.”
“Capisco.” disse Marzio incrociando le braccia al petto, “Cosa mi sai dire sugli Artigli?”
“È una leggenda della nostra scuola. Non credo abbia veramente gli Artigli del Consenso.” rispose Pi sorridendo.
“Di cosa si tratta?” chiesi incuriosito.
“Pare che nel 1968 uno studente abbia ideato sei anelli aventi un minuscolo parallelepipedo. Questa parte è estremamente tagliente, può lacerare qualsiasi materiale. Pare che siano stati realizzati dal nostro istituto in quello stesso anno, usati poi durante le manifestazioni per circa 10 anni. Poi scomparvero improvvisamente.” raccontò Pi.
“E se fossero ricomparsi proprio quest’anno?” disse Marzio massaggiandosi il mento.
“È solo un’ipotesi. In ogni caso, non possono di certo far del bene nelle mani di un membro dell’USA.” disse Pi.
“Perché Teschio lavora per Davide, se hanno obiettivi diversi?” chiesi.
“Ottima domanda.” commentò Marzio, “Magari lo scopriremo domani.”
“Domani?”
“In Aula Magna.” pronunciò Pi, “Ci sarà il dibattito indetto dalla dirigente. Parteciperanno i rappresentanti dell’USA e dell’URSS.”
“Vieni anche tu, Settimo.” propose Marzio, “Così possiamo scrivere insieme un articolo a riguardo.”
“Va bene.” annuii, poi suonò la campanella di fine intervallo. Tornammo nelle nostre classi in silenzio, in pieno contrasto con la confusione provocata dalle chiacchiere e dalle urla degli studenti nei corridoi.

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